Apostate – Time of Terror

Gothic doom dall’Est Europa: Gli Apostate non centrano il bersaglio

Andare sotto la sufficienza, qualche volta, bisogna pur farlo, seppur a malincuore. Gli ucraini Apostate, con il loro secondo disco, non riescono a fare breccia, nonostante suonino “belli vecchi” e abbiano il dizionario del gothic/death-doom saldamente stretto fra le mani.

Malgrado gli sforzi, la formazione non riesce a lasciare segni profondi o ricordi duraturi. Time of Terror scorre così, stanco e apatico, mentre l’esperienza riesce almeno a rendere la situazione meno preoccupante (qualche toppa c’è, e rende l’insieme fruibile al di là di tante congetture).

I Nostri riescono persino ad affascinare, a modo loro, ma non mantengono alta l’attenzione, che si disperde lentamente con il passare dei secondi (la presenza di non poche accelerazioni non aiuta). L’accumulo di minuti trasforma così l’ascolto in un piccolo calvario, ricolmo di noia e sbadigli, nonostante la “forma” sia esattamente quella che ci si aspetterebbe.

Dal 1993 a Time of Terror: Il lungo viaggio degli Apostate

Gli Apostate non sono certo dei novellini: la loro prima incarnazione risale al 1993, poi i soliti casini e i tira e molla del caso hanno complicato le cose. Solo nel 2010 sono riusciti a pubblicare il debutto ufficiale (Trapped in a Sleep), dopodiché altri cinque anni – presumibilmente non facili – li hanno condotti a questo 2015 e all’attuale Time of Terror.

L’ascolto potrà forse attrarre chi ha lasciato anima e cuore nei primi capolavori del genere (Anathema, Paradise Lost, My Dying Bride), e non va trascurato un certo smalto tipico dei paesi dell’Est Europa: un tocco astratto, dai contorni più freddi, che in questo caso rappresenta uno dei motivi della “non riuscita”. Una caratteristica che può essere gioia o dolore, a seconda di come suoni e di cosa sei in grado di scrivere.

Nel gothic/death-doom bastano davvero poche cose a determinare la riuscita o meno di un disco. Dettagli capaci di spostare il giudizio dall’ottimo al deludente. E gli Apostate, purtroppo, le sbagliano. Rovinano le strutture infarcendole di noia (un disagio mal calibrato) e di una latenza malamente rattoppata. Si resta così attaccati alle note, in attesa di un guizzo che non arriva, sperando in quel lampo capace di ribaltare le sorti in corsa (ogni tanto succede, ma non qui).

Un’apertura promettente, ma il resto non decolla

Il disco propone cinque brani, ciascuno della durata media di circa dieci minuti. Non sorprende che il primo sia anche il meno peggio: Solar Misconception, posta in apertura, riesce a catturare un po’ più di attenzione e qualche parola gentile, pur senza andare oltre un lavoro ordinario (subito dopo, Pain Served Slow mostra un crescendo interessante, ma non in tutte le sue parti).

Le chitarre si fanno largo in modo arido, guidando una produzione un po’ confusa (che non sarebbe neppure un difetto, se ben gestita). Il growl non entusiasma, e anzi contribuisce a quella generale sensazione di “blocco” che si respira anche con mezzo polmone. Così restiamo incatramati, impossibilitati al movimento, schiavi di una musica che osa poco e lancia segnali troppo deboli.

Peccato, perché la copertina aveva attivato un certo sesto senso, lasciando presagire qualcosa di più. Per ora, la speranza è di ritrovarli in futuro più rodati e consapevoli. Come già detto, bastano poche cose per fare la differenza, e non tutto è da buttare. Di buono c’è sicuramente la volontà di affondare le radici nel passato che conta, evitando ogni velleità rivoluzionaria che, al momento, servirebbe a poco. Non ci sono riusciti, ma se azzeccano meglio il mood e intervengono nei punti giusti, potrebbero essere pronti per essere ricordati.

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Summary

Ferrrum Records (2015)

Tracklist:

01. Solar Misconception
02. Pale Reflection
03. Pain Served Slow
04. Memory Eclipse
05. World Undying

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