l passo falso dei Dantalion: Where Fear Is Born delude le aspettative
Nemmeno la completa fiducia che riponevo nei loro confronti è servita a salvare la loro quinta fatica discografica. Con Where Fear Is Born i Dantalion rilasciano un album di una noia ossessiva. Un disco che parte bene con l’unica vera perla (Revenge in the Cold Night), per poi spegnersi lentamente, pezzo dopo pezzo.
La loro mutazione in ambito doom metal non aiuta certo a restare svegli. La proposta è un ibrido con un latente lato black metal che fatica a dissolversi, mal esposto e accompagnato da una produzione che non contribuisce affatto al decollo del disco (in particolare, il suono della batteria non sono proprio riuscito a digerirlo).
Atmosfere spente e vuoti creativi
D’accordo, l’intento sarà pure quello di opprimere e soffocare. Ma la partita riesce loro male, e lo spettro dei bei dischi passati come il clamoroso All Roads Lead to Death purtroppo non riesce a mettere lo zampino per salvarli. Potremmo imputare tutto ai recenti cambi di line-up. In molte occasioni rappresentano efficaci “boccate d’aria fresca”. In altri casi è un senso di fatica a dominare, un velo impietoso e difficile – se non impossibile – da rimuovere (anche se il componente di riferimento resta sempre lo stesso).
Un doom depressivo che riporta alla mente i vecchi Katatonia (quelli pre-Discouraged Ones), con qualche quieta accelerazione, quasi un rigetto verso la lentezza che si nota ancora di più proprio in quei momenti. Va comunque riconosciuto che la forma è ineccepibile. Il suono è nitido, e le canzoni (magari se ascoltate distrattamente) fanno anche compagnia, lasciando ogni tanto qualche seme capace di restare nascosto, offuscato in standby, in attesa di futuri – magari inaspettati – germogli.
Mi scorrono nelle orecchie Raven’s Dawn e Lost in an Old Memory, e pur avendone ormai un ricordo ben impresso (ho ascoltato l’album non poche volte), non riesco a farle completamente mie. Si frappone un ostacolo naturale tra me e un apprezzamento totale, nonostante di solito riesca a digerire materiale ben più pesante e addirittura “insensato”.
Finale al rallentatore: l’agonia di un disco in stallo
The Tree of the Shadows è forse il miglior esempio del senso agonizzante del disco. Buone idee che si alternano a vuoti clamorosi, vuoti che troncano di netto atmosfere, coinvolgimento e intraprendenza. Ma se fino a questo punto la sufficienza poteva – forse, forse – essere contemplata, è il finale a decretarne il definitivo affossamento. Listening to the Suffering of the Wind incarna nel modo più drastico il significato del suo titolo. Mentre per Black Blood, Red Sky dovrei riformulare pensieri dozzinali e pregni di apatia (si avverte un disorientamento continuo).
Rimandati. In fase di ri-rodaggio, forse. Ma visto il passato, un passo falso possiamo anche perdonarglielo. Chi non si aspettava nulla potrebbe forse trovarlo interessante, ma io, nella mia onestà, devo seguire ogni sensazione, e stavolta quelle negative sono certamente preponderanti.
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55%
Summary
Sleaszy Rider Records (2014)
Tracklist:
01. Revenge in the Cold Night
02. Raven’s Dawn
03. Lost in a Old Memory
04. The Tree of the Shadows
05. Nightmare….
06. Listening to the Suffering of the Wind
07. Black Blood, Red Sky