I danesi Svin danno alle stampe il loro terzo album, l’eclettica formazione con l’opera omonima si prefigge la missione di far uscire la testa dal guscio nazionale che li ha protetti -mi vien da dire “gelosamente”- sin ora. L’arma utilizzata è senz’altro d’avanguardia, tuttavia l’attitudine dannatamente spigolosa di fondo la relegherà ad un ruolo marginale sul mercato che conta.
Paragonerei Svin ad un buon prodotto culinario di indubbia qualità e quindi ovviamente costoso, ma si parla di musica e i soldi in questo caso centrano relativamente, i danesi chiedono solo attenzione, chiedono la ricerca di caratteristiche “nuove” dentro un substrato ben conosciuto e già codificato.
Gli Svin sono come un virus nato appositamente per infettare o sconvolgere, la loro musica si può definire sciaguratamente come sperimentale (ma in questo caso non renderebbe l’idea al meglio), un flusso che parte dalle radici del jazz per arrivare al post rock dei giorni nostri sino a sconfinare su vaghi tratteggi sludge. Un bel calderone certo, l’equivalente di dire tutto e niente, su Svin non troverete voci, o meglio, le voci sono gli strumenti, le canzoni ci lasciano impronte ben decise e sarà oltremodo difficile dimenticarle una volta fatta la loro conoscenza (per questo discorso non valgono i gusti, il bello di quest’album è che vi colpirà anche nel caso non dovesse piacervi).
L’abilità di saper stuzzicare, bisturi in una mano e la materia da modificare nell’altra, scosse che rimangono, scosse che ci faranno sentire più pazzi del solito (o molto più semplicemente vi riveleranno una parte di voi che ancora non conoscevate). Nonostante tutto non sapremo come prenderlo, la bellezza di questo disco è nascosta nella sua totale indecifrabilità, il fastidio come gaudio messo sul piedistallo, la sensazione di andare volontariamente in braccio dell’irrequietezza.
Incantatori confusionari su Maharaja, ipnotici supervisori su Arktis e poi quieti mestieranti su Alt. Svin è un disco bizzarro e particolare che ha nella breve durata il suo punto forte e debole al medesimo tempo, forte perché si resta concentrati, quasi arriviamo a succhiarne l’essenza, debole perché in fondo ne vorremmo ancora, vorremmo essere trascinati oltre il limite (chissà quale), essere ulteriormente condannati in quella sorta di limbo frastornante che ci viene posto di fronte.
Con Fuck John gli Svin tirano fuori l’anima ribelle, agile stilettata che s’ingrossa nello spazio (si va di fioretto, ma fa male) mentre Satan sembra ammainare temporaneamente la bandiera, tuttavia è solo l’illusione prima delle miste sensazioni di caos prodotte dai nove -incomprensibili- minuti di Fede Piger.
Creazione e libertà d’osare, di fare quello che passa per la mente senza pensare ai possibili risvolti, a quanto una data cosa possa risultare godibile o meno. Ci vuole coraggio, tanto coraggio, e questi danesi ne investono parecchi quantitativi. Procurarsi Svin equivale a voler bene alla musica e all’arte, significa “provare” e avere amor proprio. Sin dal primo ascolto ho capito che spremersi nel cercare di dare un voto sarebbe stato inutile, per una volta cerchiamo tutti di coalizzarci nel “non esprimere” un parere….Just listen….
Summary
PonyRec (2014)
Tracklist:
01.Maharaja
02.Arktis
03.Alt
04.Fuck John
05.Satan
06.Fede Piger