Stupire mantenendo le medesime coordinate dell’album precedente, cose che solo gli Ulver possono permettersi di garantire.
Flowers Of Evil ci deposita in questo modo tra sognanti e malinconiche stanze da ballo (assolutamente esclusive), in maniera meno “tragica” ed enfatica rispetto allo straniante ma fortunato The Assassination Of Julius Caesar (ben poche realtà possono vantare di aver fatto fare al proprio pubblico “balzi tra mondi” così strambi e considerevoli). Viene mantenuto un tatto che cementifica un tratto di carriera certamente più “easy listening” ma di certo non meno esplorativo rispetto a quello a cui eravamo ormai abituati.
La voce di Rygg trae parecchio comfort da questi beat anni’80, con le tracce di un percorso iniziato dall’ormai lontano Perdition City. In mezzo c’è stata solo la lotta di un “leone in gabbia”, e la ricerca di affinamento e unicità, di feeling nei confronti di un qualcosa che stava covando e che aspettava solo la base giusta per poter esplodere in tutto il suo sentimento (poco importa se parliamo di strofe o ritornelli, ogni suo inserimento agisce in maniera ben diversa rispetto allo stile datato nel quale ci troviamo magicamente immersi).
Flowers Of Evil traendo spunto dal proprio titolo arriva a somministrarci dosi più velenose, rapide e forse letali (nel bene e nel male) dei nuovi e pungenti Ulver. I nuovi pezzi appaiono più snelli, concisi, e si, gli ci vuole sempre adeguato rodaggio prima di poterli vedere sbocciati nel loro fervido e lucido potenziale. La band norvegese con questa “mossa” di non voler cambiare pelle ha optato per uno studio riversato nella snellezza e sull’effetto che possono produrre determinate dinamiche meno varie o se vogliamo ricercate. E’ come se avessero voluto mantenere ferma una data massa per favorire lo sviluppo e il lavoro del solo orlo, ed è da qui che parte lo studio di una data sottigliezza per la quale non posso esimermi dal ringraziarli.
Si sprecano le citazioni cinematografiche e quelle tratte da avvenimenti realmente successi, tutto ciò finisce per accrescere quell’aura maledetta/inquietante che ogni loro disco dovrebbe contenere in qualche modo. Una cosa è certa, gira che ti rigira gli Ulver riescono sempre a farsi riconoscere, e anche in queste fattezze lasciano inevitabilmente il loro acre odore.
Flowers Of Evil cattura nella sua tela in modo tiepido ma sopraffino (uno sfogo, un sacrificio silenzioso), i pezzi sembrano girare largo ma in effetti sono più vicini di quanto si possa pensare. Sono cardini assoluti l’opener One Last Dance e l’hit Machine Guns and Peacock Feathers (il ritornello cosa non è, subito da inserire su qualche colonna sonora in stile Drive di Refn), un brano di straordinaria-trascinante bellezza (mio chiodo fisso dell’intera opera). Russian Doll ti lavora i fianchi mentre Hour of the Wolf lascia cadere gocce di malinconica intensità (Depeche Mode e Kirlian Camera uniti al DNA dei Lupi) prima di una Little Boy tanto danzereccia quanto dannata e perforante (A Golden Eaaagleee). Nostalgia scava e chiede tempo nel pregevole duetto per poter emergere mentre A Thousand Cuts chiude tra narrazione, romanticismo e rimandi al periodo 2000/07, con un Kristoffer Rygg particolarmente “caldo” e accattivante.
Gli Ulver azzeccano anche la durata (non si arriva ai 40 minuti) e non si lasciano tentare da lungaggini come magari poteva succedere nel disco precedente. Flowers Of Evil tiene certo botta, ma non tocca più volte quei vertici raccolti dal suo predecessore. Per le mani ci resta un disco intrigante, di indubbio valore, musicalmente più “sbarazzino” se vogliamo, capace anche di girare più a lungo e facilmente una volta “digerito” a modo.
Classe che emerge da una apparente semplicità. Impossibile non premiare anche questo loro nuovo lavoro.
Summary
House Of Mythology (2020)
Tracklist:
01. One Last Dance
02. Russian Doll
03. Machine Guns And Peacock Feathers
04. Hour Of The Wolf
05. Apocalypse 1993
06. Little Boy
07. Nostalgia
08. A Thousand Cuts