Parliamo di Dark Roots of Earth, decimo album in studio per i Testament, accompagnati per l’occasione dal mastodontico Gene Hoglan alla batteria. Un disco che arriva a ben quattro anni di distanza dal precedente The Formation of Damnation, segnando un nuovo capitolo per i veterani della Bay Area.
Il periodo di sperimentazione sembra definitivamente archiviato: niente più derive melodiche alla The Ritual, né le brutalità di Low o Demonic, e neppure quel perfezionismo tecnico che aveva contraddistinto The Gathering. I Testament con Dark Roots of Earth scelgono consapevolmente di fare un passo indietro… restando però ben saldi nel presente grazie a una produzione moderna, piena e corposa. Il risultato? Una versione riveduta, corretta e potenziata del periodo Practice What You Preach / Souls of Black.
Qui bisogna fermarsi un attimo a riflettere: se siete rimasti legati a The Gathering e aspettate ancora un suo degno successore, è meglio accantonare ogni speranza. Difficilmente – anche in futuro – ci sarà un’evoluzione in quella direzione. I Testament hanno deciso di non lanciarsi in nuove sfide, preferendo affidarsi al loro marchio di fabbrica: un songwriting solido, efficace, ma privo di sorprese.
Dark Roots of Earth è, in sostanza, un disco dei Testament che suona esattamente come… i Testament. Una dichiarazione d’identità più che una volontà di stupire. Questo, a seconda dell’ascoltatore, può essere un limite o un punto di forza. Perché, comunque sia, loro un buon lavoro riescono sempre a tirarlo fuori. Le nove tracce presenti sono tutte valide e meritano attenzione, anche se chi si aspetta ancora una marcia in più potrebbe restare deluso. Ma scavando bene, anche nella parte finale dell’album – meno immediata e più ostica – si scoprono dettagli che col tempo iniziano a funzionare, trasformando ciò che inizialmente poteva sembrare banale in qualcosa di sorprendentemente efficace.
Il riffing della coppia Peterson/Skolnick è riconoscibilissimo e sempre incisivo, capace di spaziare tra ritmiche granitiche e assoli melodici che si fanno notare. L’apertura affidata a Rise Up è una scarica d’energia pura, seguita da Native Blood, tutta giocata sul ritornello, e da True American Hate, sfogo rabbioso e diretto. Le strofe, invece, seguono la tradizione: puro stile Testament, costruito con mestiere e rispetto per la propria storia.
Ogni cosa è al suo posto, pulita, compatta. Chuck Billy offre una prova convincente e completa: melodico quando serve, graffiante quando la rabbia prende il sopravvento. La sua voce, in studio, continua a essere uno dei piaceri più riconoscibili del thrash metal. Le canzoni prendono forma col tempo, e sebbene l’impatto possa sembrare simile tra i brani, c’è una sottile varietà che emerge ascolto dopo ascolto. Da A Day in the Death alla romantica Cold Embrace – che ci ricorda quanto i Testament siano capaci anche nei momenti più emotivi – fino alla conclusiva Last Stand for Independence, l’album si presenta come un puzzle ben costruito, calibrato e coerente. Su tutti, Man Kills Mankind rappresenta al meglio questo spirito di déjà-vu di qualità, una sintesi perfetta della proposta thrash metal firmata Testament.
Suonare alla maniera dei Testament, con personalità e coerenza, non è una condanna: è una scelta. E da questo punto di vista, Dark Roots of Earth è un ottimo disco, che si piazza però dietro ai loro capolavori storici. Anche nel 2012, i Testament restano sentinelle attente del thrash, fieri custodi di un’identità che, pur invecchiando, non perde mai la sua lucidità. Un bel modo di invecchiare… senza darlo troppo a vedere.
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70%
Summary
Nuclear Blast (2012)
Tracklist:
01. Rise Up
02. Native Blood
03. Dark Roots Of Earth
04. True American Hate
05. A Day In The Death
06. Cold Embrace
07. Man Kills Mankind
08. Throne Of Thorns
09. Last Stand For Independence