L’intensa e maggiore (per voglia ed intenzione) presenza concertistica ha portato l’inevitabile spaccatura anche in casa Orphaned Land. E la primaria volontà di sintetizzare il songwriting per poterlo incanalare in qualcosa di più semplice ha fatto il suo corso, così anche sulla loro pelle, all’alba del quinto disco finalmente avviene il tentativo, l’arrivo del fantomatico “salto”.
Ed è un provarci sincero, che viene dal cuore. Mi viene da pensare che sotto sotto nulla sia cambiato in casa Israele, in fondo se grattiamo via la crosta superficiale arriva ben forte il loro solito messaggio fatto di classe ed esplorazione, il solito concentrato spirituale che questa volta sembra voler strizzare l’occhiolino ad un audience più vasta, senza però rinnegare completamente il recente sfavillante passato.
Dimenticate quindi le meraviglie di Mabool e di The Never Ending Way of ORwarriOR, dimenticate la voglia di stupire tramite continue e geniali trovate, ma non cambiate nemmeno la classe di cui gli Orphaned Land sono fieri portatori, perché questa la continuano a spargere ai quattro venti. Poi, soprattutto non pensate che di colpo Yossi Sassi si sia bevuto il cervello, perché quando sai scrivere musica con la M maiuscola non lo dimentichi tanto facilmente, e anche se in maniera diciamo “poco più fredda” lo si intende anche a questo giro.
La semplicità di All Is One penso sia a tratti solo di facciata, perché dietro ad ogni pezzo troveremo un mastodontico lavoro chirurgico, ogni piccolo particolare arriva fluido e diretto, privo d’ostacoli certo, ma nasconde anche un lavorone in sede di arrangiamento che da solo giustificherebbe l’acquisto del disco a occhi chiusi.
Ed i brani sono li sornioni, ti aspettano senza la minima particella di fretta, aspettano di capire il tuo punto debole e poi ti si conficcano addosso senza quasi chiedere il permesso. La tracklist si apre molto bene, le uniche -anche se minime- difficoltà me le hanno date i due brani diciamo “completamente orientali” (Shama’im e Ya Benaye), ma è solo una questione di mancanza di feeling. Di certo -solo per questo motivo- non posso dare un voto sotto certi aspetti più consono, ma quando c’è anche il più piccolo spiffero di instabilità devo in qualche modo farlo notare, anche se dietro ci sono dei “mostri” come loro (anche la sola minima parvenza di volerli mettere in discussione non mi passa per l’anticamera del cervello).
L’impegno, gli innumerevoli sforzi andrebbero sempre premiati con ben altri numeri, ma come si suol dire “non tutte le ciambelle non riescono con il buco”, anche se per All Is One parlerei nello specifico di una “ciambella-baby” perché il disco appaga, ammalia, ti da sicuramente tanto (e anche di molto forte), ti lascia dentro qualcosa quando termina sulle note della bellissima Children (dove ripercorri mentalmente e nello specifico la prima superba metà del disco) e alla fine lo si avverte il peso della release, peso che vuol dire assoluta qualità nel loro caso.
Kobi Farhi è la solita voce confortante, lo si capisce non appena te lo ritrovi -splendido- recitare una title track così bella da arrivare ad accecare (maestri d’intreccio di strumenti). Ma il brano che più di tutti mi tormenta positivamente, quello che non esce dalla testa nemmeno a martellate è The Simple Man, dove perfetti inserimenti di archi lasciano solchi per un climax generale di assoluto spessore, una canzone che potrebbe benissimo essere un manifesto di ciò che loro sono quotidianamente nella vita.
La produzione è così pulita che ti viene voglia di berla, gli incastri continui di archi e cori così naturali che ti fanno dimenticare gli sforzi profusi in sede di lavorazione (già detto vero? credo sia il punto focale della release, quello di farti dimenticare lo sforzo, come a dire “io ti spiano io la strada, tu devi solo percorrerla”). Su Brother il nostro Kobi si supera nuovamente, la canzone è una delle poche che a questo giro dice tutto al primo ascolto, e l’emozione giunge sovrana al termine, quando il coro cattura tutto ciò di intercettabile, lì non si può pensare di comandarla. Di seguito arriva l’altra mia preferita Let the Truce Be Known con i suoi intarsi eleganti e progressive, mentre Fail ci riconsegna l’unico spaccato estremo del disco, e cacchio se è un bel sentire.
Nessuno aveva mai pensato ad una crescita da parte degli Orphaned Land perché hanno da sempre abituato tutti allo stupore attraverso la loro singolarità. Ma un ulteriore passo è pronto a partire da oggi, si chiama All Is One, potrebbe deludervi quanto esaltarvi, ma sarà meglio non arrivare ad affrettate conclusioni in ambo i sensi.
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Summary
Century Media (2013)
Tracklist:
01. All Is One
02. The Simple Man
03. Brother
04. Let The Truce Be Known
05. Through Fire And Water
06. Fail
07. Freedom
08. Shama’im
09. Ya Benaye
10. Our Own Messiah
11. Children