Mercenary – Through Our Darkest Days

La prima avvisaglia di malessere in casa Mercenary? Primo vero, evidente passo falso per i danesi? Sì, è probabile che Through Our Darkest Days sia tutto questo. Di sicuro lo è per me, e li ho sempre difesi, almeno fino al precedente Metamorphosis.

Ma questa volta, nonostante tutto il buon cuore e l’attaccamento che posso nutrire nei loro confronti, devo segnare rosso. Avrei potuto piazzare una risicata sufficienza e chiuderla lì, tutti contenti (o quasi). Invece no: questo disco alla sufficienza non ci arriva. Passino tecnica, impatto, produzione perfetta che esalta ogni cosa… ma la musica non è solo confezione. La musica deve catturare secondo alchimie – talvolta segrete, certo – e stavolta qualcosa non ha funzionato. Probabilmente il problema è nato già in fase di songwriting.

Through Our Darkest Days ha sì delle luci (poche, ma ci sono: non si sono ancora completamente rincoglioniti, per fortuna), ma purtroppo anche parecchie ombre. Non è qualcosa di oscenamente inascoltabile, sia chiaro. Ma non fa scattare la scintilla, non esalta, non si completa adeguatamente con il suo fruitore (almeno non con me). Forse non ha avuto il coraggio di aspettare canzoni migliori, dovendo piegarsi a logiche di mercato che impongono oggi un nuovo disco ogni due anni/due anni e mezzo.

Il tutto si fa più zuccheroso del solito, le parti vocali sono ormai quasi completamente pulite, e i momenti di reale impatto, di concreta aggressività, si contano sulle dita di una mano. A ben vedere, però, non è nemmeno questo il problema principale, e lo dimostra bene l’opener A New Dawn: facile “da far schifo”, ma comunque efficace nel suo potere persuasivo (a dir poco sgusciante il suo riffing). Una buona strofa non basta invece a salvare la seguente Welcome the Sickness (parti incollate alla meno peggio). Mentre con la title track ci troviamo davanti al brano migliore del disco: strofa tipicamente Mercenary, ritornello che regge botta. Fossero state tutte così, parleremmo di ben altro lavoro.

Il disco prosegue, e Dreamstate Machine ne è forse lo specchio perfetto: praticamente un’altalena azionaria, con momenti buoni e altri meno (anche il refrain segue questo schema, parte molto bene e poi scivola nella noia). Logicamente, gli aspetti negativi prendono presto il sopravvento, e si rimane freddi, mentre la musica scorre. Scombussolati, incapaci di formulare anche solo un sentimento positivo o vagamente tale. A Moment of Clarity è quasi un insulto a tutto ciò che di buono hanno prodotto in carriera, brano che più di tutti – secondo me – affossa il disco.

Beyond This Night e Starving Eyes cercano di galleggiare in qualche modo (anche se la seconda mostra un po’ di aridità e un riciclo discutibile in fase di scrittura), mentre Generation Hate (chi ha detto Pantera laggiù?) fa il verso alla prima traccia per quantità di spirito catchy sparso ai quattro venti, solo che, questa volta, risulta lievemente fastidiosa.

Molto buona invece la chiusura, affidata a Forever the Unknown: il classico brano che arriva quasi a ingannarti sul reale valore dell’album.

Peccato che l’oscurità dichiarata nel titolo e dalla bellissima copertina non si ritrovi minimamente nella musica. Peccato un po’ per tutto, a dire il vero. La speranza di una pronta ripresa, però, non è affatto assurda. Aspettiamo e vediamo.

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Summary

NoiseArt Records, Prosthetic Records (2013)

Tracklist:

01. A New Dawn
02. Welcome The Sickness
03. Through Our Darkest Days
04. Dreamstate Machine
05. A Moment Of Clarity
06. Beyond This Night
07. Starving Eyes
08. Generation Hate
09. Forever The Unknown

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