Lady Beast – The Inner Alchemist

Lady Beast – The Inner Alchemist: tradizione che morde, melodia che graffia.

Non avevo ancora avuto l’occasione di entrare in contatto con questa realtà americana. Fortunatamente, è arrivata grazie al quinto capitolo discografico intitolato The Inner Alchemist. I Lady Beast si presentano come una band agile e scattante, capace di esplorare con sicurezza i territori più classici dell’heavy metal.

Durante l’ascolto, sono tanti i nomi che mi sono affiorati alla mente. La scena classic metal americana è chiaramente un riferimento solido, ma nel corso di questa corsa di 35 minuti vengono tributate anche alcune colonne portanti del panorama europeo. Il tutto può essere riassunto in un abbraccio che va dall’epicità alla Ronnie James Dio, passando per il tiro degli Iron Maiden, fino alle oscurità dei Mercyful Fate.

Ci sono dischi che non bussano alla porta: entrano, ti afferrano e ti portano via. The Inner Alchemist dei Lady Beast è uno di questi. Non perde tempo in convenevoli: ti guarda dritto negli occhi e parte. Se ci stai, bene. Se no, avanti il prossimo.

Oracle’s Omen accende la miccia e mette subito in evidenza la carismatica voce di Deborah Levine, capace di prendersi la scena con piglio e naturalezza. Il riffing è tanto essenziale quanto ispirato, e il brano scivola via tra esaltazione e impatto.

Through the Eyes of War è coesa e ombrosa, un pezzo più cupo e strisciante che con me fa centro al primo colpo. L’assolo è ottimo (ma questa sarà una costante nel disco), sempre ficcante e ben incastonato nel contesto. La title track, invece, sfodera melodie rarefatte, una sorta di magia epica che va dritta al bersaglio.

Starborn ci tende un fazzoletto per asciugare le lacrime, salvo poi lanciarsi in una poderosa cavalcata: è forse il vertice dell’anima epica dell’album, con un ritornello che definire “stregoneria pura” non è fuori luogo.

Crone’s Crossroads ha un tiro oscuro e ruvido, dove Levine – in alcuni passaggi – mi ha ricordato addirittura il mitico Gerrit Mutz dei Sacred Steel (e non è un paragone buttato lì a caso). Feed Your Fire, invece, parte con l’energia dei primi due album degli Iron Maiden, così come l’instrumental Witch Light. Il riffing è centrato, le strofe sono tirate, vive, trascinanti.

Il disco si chiude con una solida doppietta : The Wild Hunt, compatta e incalzante, e Off With Their Heads, un’autentica ed indiavolata scudisciata finale.

I Lady Beast non vogliono riscrivere un genere che ha già messo radici profonde nell’anima di chi li ascolta. Si pongono piuttosto come “guardiani della fede”, e lo fanno davvero con molta convinzione. Riescono a superare la trappola della nostalgia fine a sé stessa, mantenendosi vivi e presenti, pur guardando al passato con amore e rispetto. Il messaggio arriva forte e chiaro, e noi possiamo solo accoglierlo con la giusta carica.

Alla fine del viaggio, The Inner Alchemist non è solo un gran bel disco: è anche una dichiarazione d’intenti. I Lady Beast sono qui, suonano energici e più affilati che mai, divertono e convincono. E non devono chiedere niente a nessuno.

70%

Summary

Dying Victims Productions (2025)

Tracklist:

01. Oracle’s Omen
02. Through The Eyes Of War
03. Inner Alchemist
04. Starborn
05. Crone’s Crossroads
06. Feed Your Fire
07. Witch Light
08. The Wild Hunt
09. Off With Their Heads

Commenta