Inner Shrine – Pulsar

Gli Inner Shrine tornano con l’album Pulsar, a tre anni di distanza da Mediceo, e lo fanno – com’è nel loro stile – cambiando ancora. Sempre secondo le proprie regole, del tutto indifferenti alle mode passeggere.

In pochi si aspettavano un ritorno (un ritorno, diciamolo, “diverso”) alle oscurità degli esordi. Di certo non ci si poteva immaginare l’abbandono totale di quella componente elegante e teatrale, ora messa da parte per lasciare spazio a un suono più chiuso, asfissiante. Eppure, un filo invisibile continua a tenere insieme tutta la loro discografia, una costante che resiste.

Con Pulsar, gli Inner Shrine indossano un nuovo abito fatto di melodia cupa e negativa. Le soluzioni “facili” vengono di fatto scartate. Non abbiamo voci pulite, solo drammaticità scura e inesorabile, espressa sempre attraverso forme diverse. Non c’è ricerca d’immediatezza, né violenza gratuita. Pulsar è, ancora una volta, una prova di solidità, di personalità, ma soprattutto una dichiarazione definitiva: fare solo ciò che si desidera davvero.

Le chitarre, rarefatte e impolverate, si alzano confuse tra le rovine, dipingendo scenari apocalittici che – paradossalmente – lasciano anche spiragli di speranza. Le melodie, ossessive e ricercate, rappresentano ancora una volta il tratto distintivo della loro musica. Mai banale, sempre tesa verso un’unica direzione: racchiudere voce, ritmica, chitarre ed effetti in un’unica, compatta sfera sonora. Qui domina una confusione concreta, ma voluta, inseguita e conquistata con pazienza, senza mai forzare la mano.

Black Universe apre il disco mostrando subito questa nuova veste. The Last Day on Earth, invece, rappresenta il classico marchio di fabbrica del gruppo: un lento cullare, schiavo di una melodia tanto seducente quanto disillusa. Questo sono gli Inner Shrine, questo rappresentano nella loro essenziale purezza (spoiler: il pezzo diventerà il mio preferito). In The Rose in Wind, tragica esaltazione e sentimento si fondono in un affresco che solo loro potevano creare: una melodia trascinante, così bella da gelare all’istante.

Sembra quasi che Luca Liotti, con questo disco, voglia rendere omaggio a chi – al di là del tempo e delle mode – è ancora qui ad ascoltare le opere della sua creatura. Più ascolto Pulsar, più questa idea si fa chiara. E se non capite di cosa parlo, forse è il momento giusto per recuperare il tempo perso. La strada, dopotutto – anni a parte – non è poi così lunga.

Fuori da sterili track-by-track, vale la pena citare Immortal Force, brano calamita che attrae come un gigantesco magnete sonoro, e Four Steps in Gray, con il suo incedere robotico che potrebbe intrigare anche i fan degli Hypocrisy.

Il voto potrà sembrare alto ad alcuni, e lo comprendo. La musica degli Inner Shrine non è per tutti. Non tutti riescono a vedere il buono che vi si nasconde. Il segreto sta lì: chiedersi cosa si cerca, e capire quanto questa band possa fare noi. Il resto, come sempre, lo farà la musica. E se l’effetto sarà quello giusto, tanto meglio per voi.

Se non li conoscete, Pulsar potrebbe essere un inizio perfetto (non tutti gli inizi devono partire dall’inizio). Serve solo l’intuito, la volglia, di calarsi alla cieca nel loro mondo: un globo dove coesistono sensazioni ermetiche e trasporti lenti. Una materia apparentemente semplice, ma non troppo. Difficile da immaginare? Non resta che ascoltare.

La band fiorentina si conferma, ancora una volta, tra le realtà più personali del nostro panorama. Somiglianze fugaci con altre band? Forse. Ma il loro stile resta unico, subito riconoscibile, profondamente ancorato alla propria, devota dimensione.

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Summary

Bakerteam Records (2013)

Tracklist:

01. Black Universe
02. The Last Day On Earth
03. The Rose In Wind
04. Pulsar
05. Peace Denied
06. Four Steps In Gray
07. Immortal Force
08. Between

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