Grief Of Emerald – It All Turns to Ashes: sinfonie infernali per nostalgie svedesi
Dopo il mezzo comeback dell’anno precedente (The Devils Deep), ecco arrivare il vero successore del lontano Christian Termination (2002). Ci sono voluti dieci anni per ottenere It All Turns to Ashes, ma il caseificio Grief Of Emerald non ha cambiato il libro delle ricette di una sola virgola. La band svedese, capitanata dall’impavido Jonny Letho, resta ancorata a un immaginario estremo/sinfonico di chiara estrazione anni ’90. Il fattore nostalgia sarà infatti determinante ai fini del giudizio finale, tanto da farmi immaginare una fittizia quanto esigua platea di ultra-trentenni come unici “spettatori paganti”.
È tutto infuocato, dalla copertina ai suoni. Le canzoni sono, prima di tutto, un tributo a loro stessi, ma anche al black metal svedese “tirato” di matrice Dark Funeral/Marduk o ai Naglfar più diabolici. Ma i Grief Of Emerald usano le tastiere – eccome se le usano – con dosaggi larghi e oscuri, e spesso lasciano alle chitarre il ruolo di degno accompagnamento. It All Turns to Ashes avrebbe, almeno per me, tutte le carte in regola per sfondare ogni tipo di barriera. Eppure, ciò non è accaduto. I motivi non riesco nemmeno a focalizzarli pienamente. Diciamo che il disco, nel suo insieme, non arriva a colpire quei punti magici: li sfiora, sì, più di una volta e in diverse tracce, ma il clima generale, a fine ascolto, non risulta davvero appagante.
La produzione: il vero tallone d’Achille
Credo di aver individuato il “maggior indiziato” nella produzione. Questa trasmette ben poco e contribuisce ad appiattire il suono. Il disco suona inevitabilmente “poco vivo” e, di conseguenza, poco interessante. Proprio per questo motivo, le canzoni migliorano se prese singolarmente – spassionatamente, e in momenti diversi – e potrebbero addirittura acquisire un valore maggiore rispetto al tipico ascolto globale. Purtroppo ho percepito una sensazione di stanchezza non da poco. Più si procede, più aumenta, insieme a un certo disagio. E su questo non riesco proprio a passarci sopra.
Un’arma a doppio taglio: questo è il giudizio che mi sento di dare a It All Turns to Ashes e ai “nuovi” Grief Of Emerald. Eccellente a tratti – come nella doppietta composta da And Yes It Moves e God of Carnage — e inconcludente in altri (ad esempio, ho sviluppato una particolare avversione verso Cage of Pain).
Le tastiere danzano in maniera costante, alternando momenti veloci e no-compromise ad altri più ritmici, con chiari richiami ai Dimmu Borgir. Le canzoni – vuoi sempre per la produzione – tendono a somigliarsi molto, e incideranno a seconda dei livelli personali. Ciò che io digerisco poco, per altri potrebbe risultare tranquillamente fantasmagorico. Perché, girarci attorno quanto voglio, una certa esperienza traspare chiaramente.
Un disco che sicuramente mi procurerò a prezzi stracciati (anche solo per il fattore nostalgico di cui sopra). Perché alla fine, al di là di un voto che forse è troppo severo, il disco merita quanto altri. Quantomeno, resta la dimostrazione di voler credere in un genere che non paga certo più come un tempo.
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55%
Summary
Non Serviam Records (2012)
Tracklist:
01. And Yes It Moves
02. God of Carnage
03. Where Tears Are Born
04. It All Turns to Ashes
05. Cage of Pain
06. When Silence Became Eternal
07. Warstorms
08. Stormlegion (Warstorms Part II)
09. The Third Eclipse