Sembra ieri e invece sono dodici anni, dodici anni d’attesa e di conseguenti paure perché si sa, quando c’è di mezzo la perfezione, c’è anche la paura dietro a bussare sorniona e letale.
Finisce così “l’eterno” duello del “2 contro 2”, è giunto il quinto pargolo, un figlio ancora troppo giovane per essere adeguatamente compreso e sviscerato (non dimentichiamo come il tempo abbia giocato a favore degli Empyrium, esplosi concretamente solo a seguito della diffusione di internet). Questo è il disco che spezza l’equilibrio, quello che cerca anche di cambiare qualche carta del mazzo senza la pretesa d’intaccare un trademark ben preciso, acquisito con forza, fatica e passione.
The Turn of the Tides è un disco che tenta di unire l’anima acustica con quella elettrica, allo stesso modo sono chiare ed evidenti le influenze in stile Dead Can Dance, ed il solo associare o pensare al risultato fa salire un doppio strato di pelle d’oca. E per metà album sarà proprio questa la sensazione principale, perché gli Empyrium stavano assurgendo a definitiva divinità, salvo poi “cadere” drasticamente nel mondo mortale con un finale blando e notevolmente inferiore ad una partenza dai toni abbastanza epocali.
Così mi ritrovo a tranciare di netto un possibilissimo capolavoro, accompagnato da squillanti suoni di tromba e tappeto rosso coperto da foglie autunnali, perché il miracolo è avvenuto solo per metà ed il problema primario diventa successivamente questo: “come giudicarlo?“. Se non dovessi scrivere un commento/recensione sarebbe certamente più semplice, non ci sarebbero troppi giri (spazio unicamente dedicato all’aspetto sensoriale della faccenda) di parole e piazzerei The Turn of the Tides assieme agli altri che lo hanno preceduto, come l’ennesima gemma di una discografia unica per valore ed intensità; ma visto che qualcosa bisogna scrivere e l’obiettività è uno spettro da tenere in considerazione, bisogna cercare di essere il più onesti possibile, e sottolineare perché questo album non arriva a toccare quella categoria che dovrebbe spettargli di diritto (ovvero quella di top album).
Sette canzoni, quattro vertiginosamente belle, splendide e quant’altro, più una struggente e breve parte per pianoforte e voce (la “stagionale” We Are Alone), poi le ultime due che alimentano l’andatura, una sorta di concept acquatico che si prende tempo e spazio. Non sono così deludenti With the Current into Grey e title track (ad essere altrettanto onesti), ma spengono in qualche modo l’interruttore, raffreddano l’entusiasmo salito prima a livelli importanti, ci consegnano un finale “non degno” delle meraviglie ascoltate sino a poco prima.
Orsù, ma quelle quattro gemme iniziali, una posta dietro l’altra, farebbero dimenticare ogni possibile/evidente bruttura, le ho ascoltate senza sosta e ancora sono lì ad emozionarmi come la prima (o la seconda, perché la seconda è sempre meglio) volta. Saviour è pura poesia, la canzone ti blocca e gela quando “l’orchestra” si completa nel suo splendore totale, la voce da tenore di Thomas Helm fa il resto, magistrale interpretazione di forme malinconiche ed astratte (miscela di calore fluttuante e potenza).
Dead Winter Ways ci mette nelle mani con fiducia le chiavi del mondo Empyrium, la chitarra elettrica dipinge immobilità, bloccando i tentativi d’espansione vocale (affiancati dal sempre apprezzato scream che qui fa così bella ed unica presenza) così sinuosi da far impallidire. In the Gutter of This Spring erge a livelli massimi l’influenza della formazione di Brendan Perry e Lisa Gerrard prima di lanciarsi soavemente su un funzionale epilogo in elettrico crescendo. The Days Before the Fall, la conoscevamo invece già da diverso tempo, così bella e perfetta che le parole finirebbero solamente per sminuirla, per me assolutamente immortale.
Tutti o quasi fanno ritorno prima o poi, non hanno fatto eccezione nemmeno gli Empyrium, e laddove sembrava che le pressioni non trovassero fertilità, Schwadorf ha infine ceduto, prima portando magistralmente la sua creatura in concerto, e poi con The Turn of the Tides. Delusi o contenti? la risposta come sempre sarà quella sensazione insindacabile che ci parla dal di dentro. La mia è chiara e limpida, è gioiosa, e compie salti euforici discretamente alti.
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Riassunto
Prophecy Productions (2014)
Tracklist:
01. Saviour
02. Dead Winter Ways
03. In the Gutter of This Spring
04. The Days Before the Fall
05. We Are Alone
06. With the Current into Grey
07. The Turn of the Tides