Cenotaph – Riding Our Black Oceans: Il ritorno di un tesoro dimenticato
Me la ricordo bene, quella copertina azzurrina con sopra il logo Cenotaph. Quell’acqua, quello sguardo fisso rivolto verso di noi, come se fossimo colpevoli di qualcosa. Me la ricordo sparsa tra le pagine delle riviste, quasi un’epoca fa. Una questione trattata perlopiù con sufficienza, ma che oggi appare come la dimostrazione perfetta di come certe cose acquisiscano un reale valore solo col tempo.
Un valore speciale, non necessariamente legato al disco in sé, che se paragonato ai capolavori del genere resta comunque qualche gradino sotto. Ma un valore affettivo, di urgenza. Perché quando una certa aria viene a mancare, o l’incombenza di certi “lavoroni” diventa troppo opprimente, c’è bisogno di album come Riding Our Black Oceans. Un disco che oggi riesce a esprimere al massimo il suo potenziale proprio perché è venuta meno la sua “materia prima”. Non si suona più così. O meglio: suonare così non rende più, e quindi la gente prova altro (le eccezioni, volendo, si trovano, ma non sono mai davvero complete per ovvie ragioni). Oppure semplicemente non ci si pensa più. Ed è proprio per questo che la ristampa ad opera della Chaos Records diventa un succo prelibato. La riesumazione di questo – ora sì – mezzo capolavoro uscito nel 1994. Una dichiarazione nascosta, ma orgogliosa: “C’eravamo anche noi, ed è giunto il momento di farvelo sapere”.
E Riding Our Black Oceans ci serve davvero come il pane. Nella sua melodica “disconnessione tremolante” si riflette tutta l’influenza e la forza dei primi At The Gates, con gli Eucharist al seguito, e via discorrendo (da cosa nasce cosa), guadagnandosi un posto d’onore accanto a nomi come Miscreant (soprattutto loro, i miei “compiantissimi”), Sacrilege, Luciferion o i primi Callenish Circle e Night In Gales.Cohesione e Carattere: Un Disco Che Non Molla la Presa.
Cohesione e Carattere: Un Disco Che Non Molla la Presa
Profondo “sgolamento” vocale, chitarre impervie, mai statiche, sempre pronte a pennellare armonie in ogni anfratto. Il disco ama ripetersi. Sceglie un tono iniziale e lo mantiene invariato per tutta la sua durata di 49 minuti. Scale trascinanti, assoli come perle, momenti sofferti, melodie che rapiscono, e brevi intuizioni solo apparentemente spiazzanti.
C’è tutto il buon decalogo di come dovrebbe essere suonato il death metal melodico svedese. Quello vero, per intenderci, quello dei primi dischi di In Flames e Dark Tranquillity, non ciò che sono diventati subito dopo con i loro successi. Arcano, ricercato, dove ogni componente partecipa attivamente al risultato (e che dire di quel basso?!). Il tutto all’interno di una sfera sonora particolare e volutamente elaborata, non dimentichiamoci che siamo davanti a un progetto messicano.
Riding Our Black Oceans va preso nella sua interezza (parlare dei singoli brani porterebbe alla ripetizione schematica degli stessi concetti). Ogni passaggio è fondamentale per generare ricordi brillanti o fulminei. Vi dico comunque i miei preferiti: The Solitudes, Grief to Obscuro e Infinitum Valet. Uno sfizio, perché capirai da solo tutto non appena parte l’opener.
Dare un voto oggi ai Cenotaph sarebbe troppo facile, o troppo soggettivo. Diciamo che si parte da un minimo di 70 fino a un massimo di 80. Io scelgo una buona media, e chi si è visto, si è visto.
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75%
Riassunto
Cyber Music (1994), Chaos Records (2014)
Tracklikst:
01. The Solitudes
02. Severance
03. Grief to Obscuro
04. Macabre Locus Celesta
05. Among the Abrupt
06. Infinitum Valet
07. The Silence of Our Black Oceans
08. Soul Profundis
09. Ectasia Tenebrae