Ed ecco qui l’appuntamento annuale con Varg Vikernes, ormai tappa immancabile ed abitudinaria da qualche anno a questa parte. Così, mangiandosi intensamente anni su anni, in brevissimo tempo la seconda fase della sua discografia ha pareggiato la sua controparte storica, in questo modo potrà finalmente partire l’attesissima partita del “sei contro sei”.
Ok, scherzavo, non c’è nemmeno motivo di giocarla la partita, però aldilà di una prolificità che ininterrottamente miete, pensa e raccoglie musica su musica (i dischi sono anche tutti di una certa durata), c’è anche da dire che il periodo dopo scarcerazione sta diventando a suo modo alquanto accattivante. Guardando dall’alto, con un certo distacco e con più chiarezza, potremo vedere sei dischi diversi fra loro, ma uniti da quell’unico seme in fase di procreazione.
Ci sono, sussistono, ovviamente delle somiglianze (se devo dire la mia The Ways of Yore sarebbe stata l’ideale continuazione di Umskiptar), ma se li passiamo in rassegna con il pensiero tutti, uno ad uno, avremo fin da subito ben chiara forma ed immagine di quel singolo, il suo stile e colore.
Così The Ways of Yore arriva a raffigurare il secondo capitolo (di questa sestina) cosiddetto “ambient” dopo Sôl austan, Mâni Vestan, ma questo parlava tutt’altro tipo di lingua rispetto alla nuova creazione, con questo nuovo disco Burzum ha voluto scavare più a fondo, approfittando degli studi della moglie e del film con lei girato intitolato ForeBears.
The Ways of Yore vive di continui momenti, ponendo l’ascoltatore su perenni situazioni di sonno e conseguente risveglio (caratteristica questa che va messa ovviamente fra gli aspetti negativi se mal ci si approccia in partenza), o parafrasando di morte e rinascita. L’epica di Vikernes si sposa qui con le sue solite tastiere ambient ed un forte gusto primordial/folk. C’è anche da registrare una spiccata presenza vocale (no, non può essere considerato un album strumentale nonostante la musica sia lasciata “da sola” per la maggior parte del tempo) che avviene solamente tramite precisi cori, o parti parlate ed appena sussurrate.
E’ lavoro sacro e atavico (il trittico Heill Óðinn, Heil Freyja ed Ek Fellr varrebbe a tal proposito più di mille parole al sacro vento), così semplice e pungente da poterne carpire l’antico odore. L’obiettivo di questi ultimi anni è ben chiaro, prendersi musicalmente il giusto tempo, non correre mai, cercare sempre e solo l’uscita più semplice senza nascondersi. E quest’uscita semplice non deve per forza di cose diventare di facile ascolto, è li ed è spinosa, esige la pazienza per non dover trasmettere crisi davanti l’immobilità delle cose.
Si, le idee potrebbero essere finite o poco magari ci manca, però in questo modo riesce a mascherarle, riesce ad intrattenere (e non mi stancherò mai di ripeterlo di come ci voglia tempo o momenti giusti per riuscire ad andarci d’accordo) grazie alla quiete trasmessa, una sperimentazione in territorio sicuro dove l’incedere si presta meglio durante la prima parte del disco, qui tutto si passa il testimone con ritmo, arrivando sotto certi aspetti pure a spiazzare, i motivi e l’andatura cambiano spesso prima di gettarci a peso morto su una seconda parte fortemente riflessiva, dilatata e nebulosa (appare anche la chitarra elettrica tramite lievi e distanti cenni, molto bello il richiamo-risposta dato da Hall of the Fallen e la seguente “malinconicissima” Autumn Leaves).
Non un disco sul quale insistere, ma uno dove ritornare di tanto in tanto nel corso di una intera esistenza, per stuzzicare di volta in volta vecchi ricordi e nuovi sensi. Probabilmente imbarazzerà la maggior parte delle persone. Cioè, capiamoci, The Ways of Yore è praticamente “inconsigliabile”, è pur sempre buona cosa sottolinearlo vista la sua particolare natura e conseguente metodologia d’esposizione, ancora una volta Burzum vuole remare contro il presente, generando il suo solito ordinario ruolo, d’altronde lo ha sempre fatto e non c’è motivo di smettere proprio ora o almeno finché riuscirà a dare un impronta così ben definita alle sue creature.
L’album si conclude con due rivisitazioni, prima Emptiness (la cara e vecchia Tomhet) e poi To Hel and Back Again (ovvero la più recente Til Hel og Tilbake Igjen), di certo allungano di molto il brodo con i loro 23 minuti, ma così male messe li in fondo non ci stanno (per i più impazienti Autumn Leaves rappresenta comunque una signora e perfetta fine).
Summary
Byelobog Productions (2014)
Tracklist:
01. God From The Machine
02. The Portal
03. Heill Odinn
04. Lady In The Lake
05. The Coming Of Ettins
06. The Reckoning Of Man
07. Heil Freyja
08. The Ways Of Yore
09. Ek Fellr (I Am Falling)
10. Hall Of The Fallen
11. Autumn Leaves
12. Emptiness
13. To Hel And Back Again