Con The Ways of Yore nel 2014, Burzum proseguiva con un nuovo capitolo della sua storia.
Ed ecco qui l’appuntamento annuale con la musica Varg Vikernes. Ormai una tappa immancabile e consueta da qualche anno a questa parte (noi abbiamo iniziato a seguirla partendo dall’ottimo Fallen). Così, mangiandosi anno dopo anno, in brevissimo tempo la seconda fase della sua discografia ha raggiunto il livello della sua controparte storica. In questo modo, finalmente, può partire l’attesissima partita del “sei contro sei”.
Ok, scherzavo, non c’è nemmeno motivo di giocarla questa partita. Eppure al di là di una prolificità concreta, che crea e raccoglie musica su musica (i dischi sono anche tutti di una certa durata), va detto che il periodo post-scarcerazione sta diventando a suo modo piuttosto affascinante. Guardando dall’alto, con distacco e maggiore chiarezza, si possono vedere sei dischi diversi tra loro, ma uniti da un unico seme, quello della creazione musicale.
Ci sono, ovviamente, delle somiglianze e se devo dire la mia, The Ways of Yore sarebbe stata l’ideale continuazione di Umskiptar. Ma se passiamo in rassegna questi album uno ad uno, la forma e l’immagine di ciascuno sono subito chiare, con un loro stile e colore distintivi.
The Ways of Yore rappresenta il secondo capitolo (di questa sestina) cosiddetto “ambient”, dopo Sôl austan, Mâni Vestan. Tuttavia, mentre il secondo parlava un’altra lingua, questa nuova creazione va a scavare ancora più a fondo, approfittando pure degli studi della moglie e del film che hanno realizzato insieme, ForeBears.
The Ways of Yore vive di continui passaggi, ponendo l’ascoltatore in perenni stati di sonno e risveglio (un aspetto che, ovviamente, potrebbe essere un limite se non ci si approccia al disco nel giusto modo). In termini più poetici, si tratta di morte e rinascita. L’epica di Vikernes si sposa qui con le sue solite tastiere ambient e un forte gusto primordiale/folk. Da segnalare anche una presenza vocale piuttosto evidente (no, non si tratta di un album strumentale, nonostante la musica sia predominante e, per la maggior parte del tempo, lasciata “da sola”), ma che appare solo tramite cori precisi, o parti parlate e appena sussurrate.
The Ways of Yore è un lavoro sacro e atavico (il trittico Heill Óðinn, Heil Freyja ed Ek Fellr sarebbe sufficiente per esprimere più di mille parole al vento). Così semplice e pungente da evocare l’antico odore delle cose. L’obiettivo di questi ultimi anni è chiaro: prendersi musicalmente il giusto tempo, non correre mai, cercare sempre e solo l’uscita più semplice, senza nascondersi. E questa uscita semplice non deve per forza diventare facilmente fruibile. Se ne sta lì, spinosa, e richiede pazienza per non rimanere colpiti dall’immobilità delle cose.
Sì, le idee potrebbero essere finite o forse poco ci manca. Però Vikernes riesce comunque a mascherarle ancora bene (e non mi stancherò mai di ripetere che ci vuole tempo o i momenti giusti per riuscire a entrare in sintonia con questo tipo di musica). Il disco presenta una sperimentazione che, pur restando in un territorio sicuro, si rende più interessante nella prima parte, dove ogni brano si passa il testimone con ritmo, arrivando persino a spiazzare. I motivi e l’andatura cambiano spesso, prima di gettarci in una seconda parte più riflessiva, dilatata e nebulosa. Qui appare anche la chitarra elettrica, tramite lievi cenni distanti. E’ molto bello il richiamo-risposta tra Hall of the Fallen e la seguente “malinconicissima” Autumn Leaves.
Non è un disco sul quale insistere, ma uno a cui tornare di tanto in tanto nel corso di tutta una vita. Giusto per risvegliare vecchi ricordi e nuovi lodevoli sensi. Probabilmente imbarazzerà la maggior parte delle persone. Cioè, capiamoci, The Ways of Yore è praticamente “inconsigliabile”, ed è giusto sottolinearlo vista la sua particolare natura e il metodo di esposizione. Ancora una volta, Burzum vuole remare contro il presente, mantenendo il suo solito ruolo ordinario. D’altronde, lo ha sempre fatto e non c’è motivo di smettere ora, almeno finché riuscirà a imprimere un’impronta così ben definita alle sue creature.
L’album si conclude con due rivisitazioni. Prima abbiamo Emptiness (la cara e vecchia Tomhet), poi To Hel and Back Again (ovvero la più recente Til Hel og Tilbake Igjen). Certo, allungano molto la durata con i loro 23 minuti, ma messe in fondo non ci stanno poi così male (per i più impazienti, Autumn Leaves rappresenta comunque una fine perfetta e significativa).
Summary
Byelobog Productions (2014)
Tracklist:
01. God From The Machine
02. The Portal
03. Heill Odinn
04. Lady In The Lake
05. The Coming Of Ettins
06. The Reckoning Of Man
07. Heil Freyja
08. The Ways Of Yore
09. Ek Fellr (I Am Falling)
10. Hall Of The Fallen
11. Autumn Leaves
12. Emptiness
13. To Hel And Back Again