Black Capricorn – Cult of Black Friars

I sardi Black Capricorn non sono in giro da molto tempo, ma hanno dalla loro spropositato carattere, decisione e volontà in duplice misura, ingredienti di certo fondamentali per “dialogare” con il proprio ristretto seguito e poter spiccare nella data categoria.

Ma quando scegli di imboccare la strada più classica del doom metal devi per forza di cose intraprenderla attraverso un percorso di conoscenza e consapevolezza delle azioni. I Black Capricorn per la terza volta fanno tutto ciò, riuscendo a piantare l’ennesimo consistente paletto dentro quel particolare mondo psichedelico di cui si sono fatti presto alfieri. Il risultato è Cult of Black Friars, un disco nato per non giocare tragici “effetti sorpresa” ma solo per aggiungersi a quella schiera (sempre più di nicchia) di intenditori sparpagliati per il globo, gente attaccata visceralmente ad una concezione di musica che pare essere sempre più tagliata fuori dai tempi moderni.

Ma quale è il modo giusto per trovare spazio in questo genere oggi? innovando? oppure facendo un classico ed energico lavoro cercando di essere umili e i più sinceri possibile?

Mi pare ovvio che la risposta da utilizzare in questa occasione è l’ultima, i Black Capricorn non hanno concepito di certo un capolavoro in quest’occasione, ma penso che non sia nemmeno quello l’obiettivo desiderato/cercato. Certo, si cerca sempre di fare del proprio meglio, e loro ci riescono molto bene tirando fuori un disco pesante, dai toni acidi e rituali. Uno stoner doom psichedelico ed inquietante (per la serie “quando la copertina ti apre il mondo che andrai a trovare“), generatore di passione e di passioni, una cavalcata oscura dentro perenni fumi e dense nebbie.

Cult of Black Friars gioca la sua prima importante carta con la produzione, in questi casi “scegliere il vestito giusto” è quantomai decisivo, loro lo sanno e fregandosene altamente di tecnologie varie ci concedono l’immersione dentro un mondo “retrò”, fatto di nere pulsazioni e tanta, ma proprio tanta spontaneità. Basterebbe solo questo per renderci soddisfatti ed in pace con noi stessi, vivere queste sane palpitazioni provenienti da un luogo lontano e passato, che passano da uno primo stimolo alla Cathedral per andare a scavare alle origini con i soliti (e sacri) Black Sabbath e Saint Vitus (a volte bisognerebbe solamente imparare a dare per scontati alcuni nomi, giusto per evitare di essere esageratamente banali).

Non si scappa da Cult of Black Friars, perché la tela è stata intessuta con mestiere e pazienza, così aldilà della produzione troveremo un “set” di canzoni capace di variare un minimo da quello che a questo punto potremmo aver cominciato a vendere per scontato. Eh si, qui non sarà di certo la musica o il suo impatto a stupire, ma proprio la forma che prima acquista e poi varia durante il suo svolgimento (arriverete così a non dare niente per scontato), i Black Capricorn cercano -per quanto possibile- di aprire nuovi varchi in una sorta di letale progressione, i risultati li potrete testare voi stessi con un primo semplice ascolto.

Atomium è il vortice introduttivo, si vuole subito “risucchiare” l’attenzione, prelevare in maniera ipnotica tutti i sensi possibili per poi rilasciarli beati sulle note funeree della title track. Il cerimoniere Kjxu sentenzia le sue parti senza fare mai troppo rumore, la voce prende così forma di sensazione eterea, quel famoso “strumento aggiunto” che in tanti non riescono ad inquadrare con esattezza (ancora più importante qui perché il disco lascia molto spazio alla sola musica).

Possente ed epica Hammer of the Witches, semplice imponenza e mia personale perla del lato a (urge affrettarsi per accaparrarsi una delle 300 copie in vinile stampate dalla pregevole Stone Stallion Rex), puro sentimento l’assolo che scaturisce al suo interno. L’incandescente riffing di Riding the Devil’s Horses contribuirà a smuovere un certo entusiasmo (assieme alla sua “controparte nera” Cat People poco dopo) mentre su Animula Vagula Blandula sarà un flauto luciferino a farsi carico e traino dell’atmosfera globale.

From the Abyss lascia parlare il titolo nelle sue digressioni, poi ci penserà Arcane Sorcerer a stupire secondo sue precise indicazioni (prima il riffing poi il super refrain che si stampa acidamente in testa, regina indiscussa del lato b) prima che il rituale venga concluso dalla delicata e “mesmerizzante” To the Shores of Distant Stars.

I Black Capricorn non sono da “supportare” poiché italiani, ma per la loro capacità di rendere omaggio al genere sapendo esprimere al contempo concetti o parole come ricerca o esplorazione (tale tentativi saranno sempre premiati). I diversi semi lasciati da Cult of Black Friars stanno lì a dimostrarlo.

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Riassunto

Stone Stallion Rex (2014)

Tracklist:

01. Atomium
02. Cult of Black Friars
03. Hammer of the Witches
04. Riding the Devil’s Horses
05. Animula Vagula Blandula
06. Cat People
07. From the Abyss
08. Arcane Sorcerer
09. To the Shores of Distant Stars