Dopo la solita e giusta attesa di tre anni (certi lavori acquistano miglior gusto solo se lasciati un minimo ad invecchiare) eccoci arrivare al quarto imponente capitolo “subacqueo” da parte dei tedeschi Ahab. La band si è fatta fiera portatrice dell’effige abissale/oceanica in territorio “extreme doom”, in seguito è stata brava nel crearsi i giusti canali di scolo, spazi che ha saputo innaffiare con meticolosità anno dopo anno. Non si è fatta catturare dalla fretta dell’iniziale ed incredibile “boom” (diamine, mi sembra ancora ieri l’uscita di The Call of the Wretched Sea), ma ha saputo sempre pazientare il necessario, perché solo in questo modo la gente arriva al tuo capezzale “per poi rimanere”. Insomma, gli Ahab sono il classico gruppo che non riesci proprio ad abbandonare (e non è di certo comune in un’epoca in cui le uscite vanno di pari passi alle lancette di un orologio), di loro finisci sempre per ricordarti e quando se ne escono fuori con un nuovo disco non puoi fare a meno di andare subito a sentire cosa c’è dentro.
Non saprei predire quanto il loro bacino d’utenza possa -giunti a questo punto- ulteriormente ampliarsi, probabilmente “il fatto” lo hanno capito anche loro e quindi quale miglior modo d’agire se non quello di confezionare lavori ben pensati, diluiti nel tempo e soprattutto mai scontati? Questo si chiama amore per la musica, un sentimento che riesce ad abbattere perfino le infime questioni del music business.
E così ci ritroviamo immersi nella nostra bacinella preferita, pronti a subirne l’inevitabile e ormai risaputo urto, vogliosi di venire catturati o inghiottiti nelle più cupe profondità (che questa volta si colorano beffardamente, bellissima la copertina e il concept basato sul racconto di William Hope Hodgson) che sicuramente non mancheranno (in cuor tuo lo sai).
Messe alle spalle le “ruvidità” iniziali gli Ahab si sono concentrati in seguito su forme lievemente più raffinate -se vogliamo “contorte”- ma la questione si è svolta con piglio, senza mai mostrare la voglia di voler uscire da un determinato selciato. In questo modo abbiamo ottenuto lavori perfettamente inquadrabili nella loro uguale-diversità, dotati di uno spiccato trademark, ma subito identificabili per quanto concerne umori e sensazioni. The Boats of the Glen Carrig è solo l’ennesimo affresco di un insieme via via sempre più ingombrante (positivamente si intende), la ricerca di una perfezione che non potrà mai essere definitiva perché il loro lato brusco spinge per acquisire il dominio, per non lasciarsi “dominare”. Il bello è che tutto questo loro te lo fanno percepire, ti fanno avvertire la loro voglia di creare quanto il desiderio antico di voler abbattere tutto con spruzzate di sana ignoranza, il risultato è un viaggio dentro un mondo sommerso, con i sensi che vanno beatamente a quel paese, territorio fertile per quel lato onirico acquattato subito dietro l’angolo in cerca del proprio scettro.
L’arpeggio (ma un po tutto l’apparato iniziale) di The Isle nasce con l’intenzione precisa di incastrarsi nella memoria, e non c’era modo migliore per stabilire il giusto ricordo all’inizio di questo viaggio. Il pezzo esplode lentamente, come se volesse assisterci metro dopo metro durante la discesa verso l’insidioso fondale. Il suono rimbomba e stordisce mentre la voce di Daniel Droste fa letteralmente il buono e cattivo tempo (la voce pulita ti lascia distanza e ricordo, il growl invece ti si appiccica addosso con i suoi marci tentacoli). Con The Thing That Made Search la consapevolezza non tarderà nel farsi largo, la sua partenza è nuovamente quieta e “psichedelico/progressiva”, apripista dell’imperioso e scandito stacco da lento headbanging assicurato. Visioni e creatività pronte a darsi il cambio su quello che per me è il brano migliore di tutto l’album. Per Like Red Foam (The Great Storm) i nostri vestono l’abito dell’immediatezza, l’abrasione iniziale lascia spazio ad un lirismo che farà sicuramente piacere ai sostenitori degli Opeth (chissà, quando si parlava di ampliare il proprio pubblico). Il brano posto lì al centro funge come lampante intenzione “di scossa rianimatrice”, anche se a ben pensarci questi sei minuti disorientano (stranamente) in misura maggiore rispetto a quelli più corposi. Se ci fosse un rilevatore di impronte digitali non esiterebbe nel rivelare il nome Ahab a caratteri cubitali durante i primi attimi di The Weedmen, il brano (quello più lungo e funereo con il suo quarto d’ora di durata) è l’autentica mattonata preparata per questo banchetto, profondità implacabili esaltano e sottolineano nuovamente la magnifica prova di un sempre più caratteristico -demoniaco/sacrale- Droste. Il lavoro sulla location è insistente, questa non viene mai persa di vista e a To Mourn Job spetta il compito di ricordarcela per un’ultima ed inquietante volta.
I temuti ammorbidimenti non sono dunque avvenuti, anzi, The Boats of the Glen Carrig è una dichiarazione tanto limpida quanto difficile da affrontare, un epico rigetto fuori dal coro da gustarsi in tutte le sue subacquee asperità. Il suo valore si confonderà certamente con le altre loro produzioni (la lotta da questo punto di vista è selvaggia), e seguirà il nostro tatto personale, anche se per questioni affettive continuo a mettere su piedistallo il loro disco d’esordio (eh no, per certe “malattie” non c’è mai rimedio). Ognuno si farà i suoi conti millesimali seguendo le introspettive correnti di casa propria.
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Summary
Napalm Records (2015)
01. The Isle
02. The Thing That Made Search
03. Like Red Foam (The Great Storm)
04. The Weedmen
05. To Mourn Job