Il 2017 si riconferma a tutti gli effetti l’anno dei ritorni, con i Nocturnal Rites l’attesa stava segnando la preoccupante asticella dei dieci anni, dieci lunghissimi anni passati da un The 8th Sin a dir poco tentennante, un disco che sanciva l’ulteriore ammorbidimento da parte degli svedesi verso un sound più avvolgente e orientato verso il rock melodico.
Dieci anni per vederli tornare con Phoenix (adesso sotto AFM Records), un lavoro intenzionato a proseguire “la crescita” anagrafica ma soprattutto quel percorso interrotto dopo The 8th Sin. Sono indeciso su quale dei due lavori sia migliore, da una parte il nuovo Phoenix appare più compatto e “sicuro” dei propri mezzi, mentre il precedente svettava decisamente grazie ad alcune canzoni che non verranno qui pareggiate. E’ evidente -purtroppo- lo smarrimento della freschezza, freschezza che era senza dubbio riuscita ai Nocturnal Rites durante il primo cambio di rotta (se teniamo conto dei full-lenght) datato 2000 con Afterlife.
Se da una parte i brani firmati Nocturnal Rites appaiano ancor oggi ineccepibili per quanto riguarda forma ed esecuzione dall’altra si registra una sensazione ben poco entusiasmante, quasi sfiancante e di stallo. E così pur riconoscendo la bontà di alcuni refrain non si riesce mai a superare un determinato livello di presa, si rimane a galleggiare a ridosso di uno stato di costante insicurezza e incertezza. E arrivare ad esprimere un mio voto con sicurezza è tanto, tanto difficile, soprattutto quando il ballottaggio riguarda l’affibbiare una sufficienza striminzita o qualcosa di meno (su questo sono super sicuro). Appare difficile se mi metto nei panni di altre persone o se penso che in generale Phoenix possa piacere tanto di più rispetto a quanto fatto con me, il problema è immaginare quel “quanto di più” e i miei orizzonti a riguardo rimangono molto vicini alla mia prospettiva.
I Nocturnal Rites di oggi accompagnano le rudezze e le mattanze power metal alla porta concentrandosi su soluzioni melodic rock talvolta irrobustite (l’opener A Heart as Black as Coal ne è fulgido esempio). E voi mi direte: “ma è impossibile che un disco con sopra registrata la voce di Jonny Lindqvist possa non soddisfare”. E io di certo non posso far altro che venirvi incontro, ma ciò non mi leva di dosso quel velo di costante insoddisfazione che registro durante l’ascolto di questo album. Quel senso d’incompiutezza è sponsorizzato al 100% da Before We Waste Away, un brano hard rock dotato anche di un buon refrain esteso, ma ciò non evita al suo insieme di portarmi stancamente alla parola noia. Sta qui il segreto circa la mia delusione riguardo tutto Phoenix. Le cose non migliorano neppure con una The Poisonous Seed (pezzo duro del lotto che Jonny riesce quasi a salvare da solo), con il mezzo tempo agrodolce e spompato di Repent My Sins o con l’innocua What’s Killing Me. La semplice/accademica A Song for You invece mi convince già di più così come una The Ghost Inside Me dalle sensazioni velatamente oscure. La catchy Nothing Can Break Me riporta il fosco grigiore prima di una snervante Flames che reputo semplicemente come gradino più basso dell’intera opera, giunti a quel punto poco potrà fare la conclusiva -e non eccezionale- Welcome to the End.
Ho ben chiaro che alla fine devo scegliere ad oggi un fanalino di coda della loro discografia, quindi non mi resta che puntare la luce sul già fin troppo menzionato The 8th Sin, e se dovessi decidere cosa preferisco inserire -ad oggi- nel lettore fra i due la scelta ricadrebbe proprio su di lui, ciò rende automaticamente Phoenix quell’insufficienza cercata di scacciare – o non accettare- il più possibile. Semplice ma onesto.
Summary
AFM Records (2017)
Tracklist:
01. A Heart As Black As Coal
02. Before We Waste Away
03. The Poisonous Seed
04. Repent My Sins
05. What’s Killing Me
06. A Song For You
07. The Ghost Inside Me
08. Nothing Can Break Me
09. Flames
10. Used To Be God [Digipak And Vinyl bonus]
11. Welcome To The End