Pronti e via, si parte con una title track che sfoggia un riff che più Slayer di così si muore. È così che decolla Sad Plight of Lucifer, traccia ruspante e carica (con copertina che cattura l’occhio), ad aprire un disco che arriva un po’ a sorpresa e forse anche in modo inaspettato da parte dei Konkhra.
La carriera della band si era un po’ persa dopo lo storico (e da me adoratissimo) Weed Out The Weak. In mezzo ci sono stati altri quattro album, alcuni più convincenti, altri meno, ma nessuno davvero in grado di riprendere l’intensità delle prime tre uscite.
Eppure il capitano Anders Lundemark non molla, è ancora in piedi con l’intento di distruggere. Sad Plight of Lucifer ne dà una prova tutto sommato godibile. Certo, non siamo mai davvero dalle parti delle vecchie intuizioni, e a tratti l’album sembra “vivacchiare” come meglio può, ma riesce comunque a intrattenere, pur con quella stanchezza di fondo che affiora qua e là.
Diciamolo senza girarci troppo intorno: alcuni pezzi non brillano particolarmente, mentre altri tengono in moto la carretta con dignità. Molto dipenderà anche dal nostro umore e dalla voglia di cogliere gli sforzi che i Konkhra ancora mettono sul piatto.
I danesi non si arrendono e, seppur arrancando un po’, la voglia di esserci ce l’hanno ancora. E io, pur in modo moderato, finisco per godermi questa situazione. Forse è il mio debole per il loro passato che interferisce con l’oggettività, ma nonostante qualche momento a vuoto, Sad Plight of Lucifer riesco ad ascoltarlo con piacere. Sarà anche che le aspettative, ormai, erano sotto i tacchi. In casi come questo, molte volte ti salva l’esperienza.
Chiaro, provare a salvare un pezzo come Resurrection Machine è impresa dura (si risolleva giusto durante l’assolo). I Konkhra si mostrano comunque granitici, e a tratti il cantato di Anders ricorda un Chuck Billy in vena particolarmente feroce, richiamando quella bella dose di pesantezza che, dopotutto, è sempre stata nel loro DNA. E proprio la parola “pesante” qui si declina in più sensi. La produzione è bella spessa, sì, ma anche certi momenti di fiacca rischiano di aprire squarci pericolosi e irrimediabili.
I Nostri mettono ancora in campo quel loro classico “riffing da traino”, che li rende immediatamente riconoscibili (e forse è questo il dettaglio che, inconsciamente, continua a farmeli piacere). Peccato però che il tutto manchi della brillantezza di un tempo, con conseguenti cedimenti strutturali. La panteriana Revolution incarna bene questa incertezza di fondo: non so mai se mi prende o se mi respinge.
Mi trovo quindi di fronte a uno di quei casi in cui, purtroppo, bisogna scendere sotto la sufficienza. Ma lo faccio senza troppa amarezza, perché l’album, alla fine, me lo ascolto anche volentieri, a modo mio. Anche se, lo ammetto, mi aspettavo qualcosa in più dopo l’interessamento di Hammerheart Records.
Insomma, potete tranquillamente applicare al prodotto il bollino: “solo per inguaribili nostalgici di questa formazione”.
Summary
Hammerheart Records (2024)
Tracklist:
01. Sad Plight Of Lucifer
02. Revolution
03. Seven Plagues
04. Nothing Can Save You
05. The Lesser Key Of Solomon
06. August. 6 1945
07. Artificial Sun
08. Magick
09. Resurrection Machine
10. Gates Of Paradise
11. Tentacles Of Madness