Nel suo piccolo l’Into Darkness Tour ha messo in piedi un bill d’eccezione, sicuramente molto forte a livello Europeo ma forse non completamente per quello Italiano. Non c’è voluto un termometro per realizzare l’attesa e la passione regalata giustamente ai portoghesi Moonspell da gran parte del pubblico (ho visto qualcuno sfollare dopo di loro e ciò è sempre un peccato per gli occhi) a discapito degli headliner Pain che secondo il mio parere non sono ancora stati capiti a fondo nel nostro paese (nonostante lo show abbia esaltato l’esigua rimanenza); è davvero un peccato vedere uno spettacolo così professionale e magistralmente esposto in suoni e carica visiva non ricevere la giusta attenzione e una quantità di persone adeguata.
Ma tuttavia poteva andare peggio visto come era iniziata, la serata pareva essere indirizzata al completo flop, ma suonavano tanti gruppi e l’attenuante dell’orario faceva comunque ben sperare. E’ stato così molto poco il pubblico che ha seguito i simpatici Greci Scar Of the Sun (il cantante si è esibito in un italiano quasi perfetto facendosi perdonare la solita gaffe di sbagliare città nei saluti di rito) ed il loro Heavy Metal dalla multiple sfaccettature. Ragazzi semplici ed umili che hanno dato tutto nonostante la platea fosse ancora fredda e inesperta (io in primis) nei loro confronti.
Primo cambio palco ed ecco arrivare gli svedesi Lake Of Tears, una band dalla carriera importante, un gruppo non più giovane che si meriterebbe ben altre posizioni in base alla qualità/quantità di dischi proposti. Setlist avvincente la loro, che pesca nel passato gotico con pezzi che mai avrei pensato di sentire suonati live come Demon You/ Lily Anne e So Fell Autumn Rain. Al resto ci pensa l’attitudine diretta dei nuovi brani come Taste Of Hell, Illwill, Crazyman, la stoner Boogie Bubble (sempre gradita) e la graziosa composizione a nome House Of The Setting Sun (dalla loro ultima fatica). C’è stato anche spazio per il tormentone Raven Land, brano che riunisce in un colpo solo Metallica, Paradise Lost e Crematory. Alla fine i Lake Of Tears sono quelli che hanno sacrificato più pezzi per il classico ritardo, un autentico peccato.
Si cambia registro con gli Swallow The Sun (piazzare formazioni così valide e diverse fra loro è stata una vera genialata), band che rivedo molto volentieri per la seconda volta. Guidati dalla solita freddezza del singer Mikko Kotamäki (adoro il suo essere “assente”, nella sua semplicità penso sia uno dei frontman più sinceri in circolazione) che si presenta sul palco con una t-shirt dei Type O Negative, come a ricordare dopo la canzone tributo sull’ultimo disco Emerald Forest and the Blackbird (la già importante April 14th) “che noi non dimentichiamo mai le nostre perdite”. Il loro show è stato impeccabile, ma non avevo alcun dubbo a riguardo, li ho visti anche più coinvolgenti, più un “ensemble” rispetto a qualche tempo fa, l’unico neo è stata la voce di Mikko che non riusciva a spiccare nella sua grazia e potenza, troppo sotterrata dal muro delle due chitarre. E’ bello vedere come la formazione finlandese non abbia dimenticato i primi dischi e nel poco tempo a disposizione perda ancora tempo per suonare brani magnifici come Out Of This Gloomy Light, Hold This Woe e Descending Winters. Le restanti tre canzoni supportano l’ultimo nato tramite la maestosa title track, il tormentone goth/doom Labyrinth Of London e la conclusiva Night Will Forgive Us (bel pezzo per carità, ma lo vedo poco bene come chiusura del loro concerto). Auguro ai ragazzi di poter venire in Italia la prossima volta con più tempo a disposizione, più calma e più canzoni.
Il livello sale, il locale si riempie e i signori portoghesi si concedono pure un entrata rinviata diverse volte per problemi tecnici dell’intro. Ma quando Fernando Ribeiro entra marciando con la sua maschera quello che avvolge tutti è il delirio puro. Coinvolgimento alle stelle, grida, ululati e quant’altro, non ricordo un accoglienza ed una partecipazione su brani freschi di cantiere come quella avvenuta con Axis Mundi prima e Alpha Noir poi. I Moonspell sono visibilmente soddisfatti e ci tengono a fare bene in un terra che pare amarli alla follia (sembra vigere una sorta di rispetto sacrale fra Italia e Portogallo), il duetto formato da Opium ed Awake (uno dei brani che è riuscito a darmi di più in assoluto dal vivo) non risparmia nessuno e quello che verrà sarà ancora più devastante. Dapprima l’incredibile Wolfshade (A Werewolf Masquerade) ci ricorda IL disco, poi le nuove Lickanthrope ma soprattutto una Em Nome Do Medo (come riuscire a far cantare un branco di italiani a squarciagola in portoghese, incredibile, sono ancora sotto shock) in grado di creare un delirio bissato solamente da quelle autentiche perle del passato a nome di Vampiria ed Alma Mater (serve dire cosa generano tali canzoni? non credo proprio). Il consueto finale è affidato alla cerimoniale Full Moon Madness che ci lascia in qualche modo “interrotti”, lo show è passato troppo in fretta ed appena dieci canzoni per un gruppo di tale portate sono veramente poche, ma pazienza, ci sono ancora i Pain.
Come già anticipato è la professionalità di un chirurgo come Peter Tagtgren a dominare la “scena del crimine” finale, i Pain sono una macchina da guerra e forse da oggi qualcuno se ne è reso conto. Sono troppo catchy? hanno troppe contaminazioni? Io dico che questo show manda tutti a gambe all’aria, si canta, si balla, si poga, si può fare di tutto ad un loro concerto, ma soprattutto si assiste ad una esibizione perfetta, maniacale nei suoi giochi di luce, guidata da un leader ineccepibile, avvolto nella sua “sicura” ed alienante camicia di forza. Senza troppi fronzoli si parte, ed il resto vien da se (mai detto fu migliore) poco tempo per parole e pause, tutto fila liscio, in pratica si partecipa ad un autentico party dispensatore di gemme e puro intrattenimento a profusione. Same Old Song da fuoco alle polveri e I’m Going In fa già intravedere il potenziale di un concerto che vedrà la sua unica sbavatura nella conclusiva e mitica Shut Your Mouth (ma solo per un problema tecnico al microfono che ha dovuto far balzare Peter da un asta all’altra per finire la canzone). Ancora adesso mi risuona nelle orecchie il tiro di brani avvincenti come Walking On Glass, Zombie Slam e Monkey Business (che tormentone!!). Devo ammettere che ha spezzato un po i tempi Dirty Woman (troppo diversa dal resto) mentre l’andare a ripescare la “dark’n’Negative” Dark Fields Of Pain è quanto di meglio la band potesse regalarmi. The Great Pretender ha dato carica ed emozione così come la classica End Of The Line, Let Me Out ha il compito di avvicinare i mondi di Pain ed Hypocrisy anche dal vivo e la danzereccia On And On riesce a rendere straordinariamente anche in concerto.
Personalmente devo ammettere di essere al settimo cielo, ma c’è da dire che ero anche troppo “coinvolto” emotivamente, da una parte Peter Tagtgren (che finalmente ho potuto ringraziare) e dall’altra un altro mito personale come Fernando Ribeiro hanno valso da soli più di quello che mille parole possono testimoniare. A quando un altro concerto del genere?