Auroch – Taman Shud

No, così non va bene, così non basta ancora“.

Deve essere più o meno questo il monologo tenutosi nella testa di Sebastian Montesi dopo la realizzazione del mostruoso debut From Forgotten Worlds, così il passo successivo è diventato automatico, farsi raggiungere negli Auroch dal collega in crimine Shawn Haché, giusto per arrovellarsi ulteriormente le rotelle anche negli spazi lasciati liberi dal progetto Mitochondrion.

E’ lo spirito di ricerca a muovere le assi di questi canadesi, non sussiste altra spiegazione razionale dopo l’ascolto di Taman Shud (parola Persiana per definire un fine, una conclusione, parole collegate anche ad un misterioso caso di un cadavere non ancora identificato trovato ad Adelaide, Australia nel 1948), perché i Nostri non hanno scelto di adagiarsi sopra ai risultati positivi del disco precedente, non si sono messi a suonarne una copia o giù di li. Qui si prendono quasi le distanze (un attimo però, sempre di death metal si tratta) da quel lavoro, qui si cerca di riscrivere un qualcosa di proprio, perché la parola accontentarsi non deve essere pronunciata in alcun modo o maniera.

Coraggio e voglia d’osare non mancano, solo così si può portare avanti un genere sacro come il death metal, un genere che prima di consentirti “l’evoluzione” ti richiede il raggiungimento, il traguardo della parola rispetto. E solo chi è sicuro del proprio lavoro, con lo sguardo pulito e privo d’inganno può avere l’irriverenza di partorire un disco che se ne frega di tutti, che esce così come esce (ci arriviamo a breve) e in appena venticinque minuti completa il proprio cerchio distruttivo.

E’ un po come se gli Auroch avessero cercato di plasmare il proprio odio in un posto sconosciuto ai più (il portale, il varco di copertina è dannatamente indovinato), suoni e rumori raccolti chissà in quale dimensione che arrivano a noi in qualità di suggestione. Ci vorrà diverso tempo per decodificare questo disco, potrebbe anche benissimo essere che diventi una ciofeca di proporzioni bibliche, ovvero il classico album del quale se ne legge e sente parlare un gran bene e che invece puntualmente ci urta nell’intimo (e magari nemmeno lo diremo temendo di essere presi per pazzi).

Si, Taman Shud è un po’ come dire tutto e il contrario di tutto, è un esercizio di pazzia perché mentre lo ascolti sembra che siano due le band a suonare, da due diversi livelli. Uno lo riconosci subito, parla quasi la tua lingua, l’altro invece è completamente diversivo e alieno. Il riffing è disconnesso, cambia repentinamente marcia e sputa fuori idee a non finire mentre il reparto vocale risulta a modo suo chirurgico, autentica croce e delizia in grado di spalancare continui vortici, con incastri di follia, sussurri, grida e profondità.

Preparatevi ad essere catturati nel turbine, vi mancherà il respiro, la tracklist non perdona, travolge nei suoi intensi e pochi minuti, non da spazio né vie d’uscita, fa quasi effetto sapere di come primordialmente sia stato registrato.
Preferisco il debutto, su questo sono sicuro (ma quello è affare “concreto” e quindi più facile ), di cercare un verdetto per Taman Shud non se ne parla proprio, cercate solo di viverlo al meglio.

L’edizione in cd esce per Profound Lore Records, quella su Lp per Dark Descent Records , fate la vostra scelta.

Summary

Profound Lore Records / Dark Descent Records (2014)

01. Villainous
02. 8vo – Swirling in Capricorn
03. Noxious Plume
04. Taman Shud
05. Voice of Gemini
06. Death Canonized
07. Defixio
08. Novemportis
09. The Balkan Affair